Ancora 8 minuti

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Ancora 8 Minuti

Otto minuti bastano per nascere o per vivere la più inumana delle agonie.
Otto minuti sono un attimo di gioia o un calvario di terrore.

Il tempo è oggettivo solo per gli orologi che lo ordinano, non lo è per gli esseri umani costretti ad essere suoi subordinati, a percepirlo dilatato all’infinito o troppo breve per essere vissuto.

Ho provato a sentire sulla mia pelle lo scorrere di 8 minuti: ho puntato un cronometro e ho cercato di vivere, davvero, quello spazio di tempo per capire quanto è lungo.

Non passa mai.

Allora mi sono chiesta quanto siano stati lunghi gli ultimi 8 minuti di 149 (più uno) condannati a morte. Otto minuti in cui la coscienza lotta per cercare di scappare dalla realtà e, in ognuno dei secondi che passa, inizia a ragionare con la sconfitta. Otto minuti in mezzo alle urla, ai pianti e alle preghiere perché, no non può finire così per una porta che non si apre nemmeno a calci e spallate.

E diventano 7, i minuti, e c’è quella mamma che si stringe il neonato al petto, se lo preme al cuore. Il neonato che piange, svegliato dalla confusione, dall’aria carica del panico che ha saturato l’aereo che doveva riportarlo a casa a crescere e diventare uomo. Piange e la sua mamma non sa consolarlo, come si fa a consolare un figlio che stai accompagnando a morire?

E l’aereo si abbassa di un altro metro, mentre un uomo sbraita incapace di essere arrabbiato perché ormai è solo terrorizzato: “apri questa porta”. La porta che resta chiusa e lui continua a sbatterle contro, si spacca una spalla a forza di colpirla, ma il male è poca cosa rispetto alla certezza della morte che sta per arrivare. Quando la spalla cede, ci sono i piedi e i calci e nuove urla: “apri la porta”. La porta resta chiusa a proteggere la follia di un giovane boia silenzioso.

Il tempo si assottiglia, i minuti diventano 6, e poi 5. E quella mamma ninna per l’ultima volta il suo bambino e lo avvolge tra le braccia in una culla che spera lo proteggerà, almeno un po’. “Fa che non soffra, almeno lui”.

Soffriranno tutti, senza eccezione, soffriranno ancora per infiniti minuti e interminabili secondi durante i quali la speranza lascerà il cuore anche dei più pii e dei più ottimisti. A ogni spallata andata a vuoto a ogni calcio che non incrina quella porta è la morte che si ritaglia uno spazio un po’ più grande nel futuro di quella gente senza domani.

Ci sono dei ragazzini, sono 16, vorrebbero la mamma, il papà. Cercano con gli occhi un adulto che ne prenda il posto, trovano decine di adulti spaventati quanto loro, increduli e incapaci di qualunque rassicurazione.

Ancora 4 minuti e fuori dall’oblò le montagne sono ormai una scenografia disastrosa, si stringono e si affollano a garantire la sola certezza possibile: non c’è scampo. Sono nude e grigie le montagne assomigliano al cuore dell’uomo che sta guidando un plotone di disgraziati verso la morte. Un generale senza pietà che respira dopo avere chiuso fuori da una porta il diritto alla vita di un gruppo di sconosciuti. Respira e non risponde e non ha paura. Sa quello che fa. E non ha orrore. È l’orrore che cerca. E non ha misericordia. Non ce l’ha per se stesso e nemmeno per chi si porta dietro a morire.

Forse prega che finisca presto mentre vede quell’immensa roccia grigia andargli incontro. Accelerare non può, può solo assicurarsi di non mancare il bersaglio che punta. E lo fa, mentre sente i colpi che si attutiscono e perdono forza e le urla crescono e sono preghiere e sono suppliche. Adesso però, che i minuti che mancano sono 3 e la salvezza è un pericolo scongiurato, può chiudere gli occhi e accomodarsi ad aspettare.

Cosa dicono quegli opuscoli sulle procedure di sicurezza? Un uomo ne sfoglia uno e ci prova, perché un po’ di lucidità gli avanza: la testa tra le ginocchia, la mascherina dell’ossigeno e la mente che è già a casa a dare l’ultimo bacio a sua moglie.

E poi, quando i secondi sono troppo pochi, appena 120, un ragazzino prende la mano di una sua compagna di classe, di quella che gli piace e che ora ha la faccia sporca di terrore. Gliela stringe forte, che lui è un uomo e le vuole bene: “Non avere paura, vedrai che adesso si sistema tutto”. E lei lo guarda ma non lo sente, non capisce. Perché nessuno, a cui in destino è dato di vivere gli ultimi 8 minuti della propria vita in una giostra di follia guidata da un Mangiafuoco senza cuore, può capire.

Nessun essere umano che non abbia la mente sgretolata dal male può ipotizzare che un giorno di primavera salirà su un aereo e non arriverà a casa perché a pilotare quell’aereo c’è un giovane uomo senza pace.

Non c’è più tempo per pensare, nemmeno all’ingiustizia della vita, non c’è più tempo per arrabbiarsi e maledire. Tra meno di un minuto l’agonia più atroce che si può riservare a un uomo finirà sulla pancia nuda di una montagna grigia, mentre quel ragazzino stringe ancora la mano della sua compagna di scuola e quella mamma guarda ancora una volta il suo bambino che non diventerà mai un uomo.

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