In Italia dilaga il ”senza olio di palma”, ma questo non è un bene

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La nostra inchiesta: aumentano le aziende alimentari che eliminano l’olio di palma dai propri prodotti per far felici i clienti, anche se le esigenze dell’industria sarebbero altre.

senza olio di palma

Supermercato, corsia dolci, biscotti e prodotti da forno. A strillare “senza olio di palma” ormai sono in tanti. Solo un anno fa, sarebbe stato un coro minore. Televisione, pubblicità: dolci, biscotti e prodotti da forno. Un’altra sequenza di voci che, prima di chiudere lo spot, puntualizzano in corsa: “senza olio di palma”.

In Italia il partito delle aziende alimentari che hanno eliminato il grasso vegetale ha arruolato ormai un numero sempre più ampio di adepti. E con nomi di peso, come Barilla, ultima arrivata in ordine di tempo, ma destinata a sbilanciare verso il “senza” una buona percentuale della produzione di prodotti da forno in Italia.

In due anni circa, prima sotto traccia, quando solo agli operatori del settore era noto che avrebbero dovuto specificare in etichetta l’ingrediente, adoperato già dagli anni Ottanta ma prima indicato sotto grassi vegetali, poi ad alta voce, facendone una leva di marketing, l’industria dei dolci made in Italy ha abbracciato la filosofia del “senza olio di palma”. E questo nonostante l’associazione di categoria che la rappresenta, Aidepi(Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane) l’anno scorso abbia difeso pubblicamente il grasso vegetale dalle tesi di chi lo accusa di essere causa di deforestazione e impoverimento nei Paesi del Sudest asiatico, culla di questa coltura, o di essere un ingrediente potenzialmente cancerogeno (anche se nessuna correlazione tra assunzione di olio di palma e insorgenza di tumori è stata dimostrata nell’uomo).

Ma in dodici mesi, le ragioni dell’industria, che nell’olio di palma aveva trovato un grasso poco costoso, meno di tutti gli altri, facile da lavorare e di fatto invisibile al palato, si sono sgretolate di fronte a quelle del marketing. “Niente olio di palma”, chiedono i consumatori. In Italia oggi tra i marchi si sono costituiti così tre partiti: gli originali, quelli che l’olio di palma non lo usavano prima e non lo usano neanche adesso, ma senza dirlo ad alta voce, per non dare l’idea di aver cambiato idea all’ultimo momento; i convertiti, che hanno modificato formulazioni per eliminare il risultato della spremitura del dattero; i controcorrente, che continuano a farne uso e giocano in attacco.

I PURISTI DEL SENZA

Partiamo dai primi. Tra gli ultimi arrivati sugli scaffali del supermercato ci sono i prodotti di Friulbaker, azienda che, come tradisce il nome, ha origini friulane. “Siamo una startup innovativa, di prodotti senza glutine, senza lievito e senza olio di palma – spiega l’amministratore delegato, Maurizio Sacilotto -. Abbiamo iniziato due anni fa, prima con un anno di sperimentazione e da quest’anno con 2-4 giornate di produzione alla settimana. Il mercato è sensibile ai prodotti “senza””. Fuori l’olio di palma, alla Friulbaker si usano quelli di riso e di girasole. Sacilotto ha già affrontato il passaggio dal grasso esotico ad altri più comuni: nel 2008, in un’altra azienda di panificazione, aveva levato dai grissini la palma. Certo cambiano i costi: “L’olio di palma costa 0,45 centesimi al chilo, quello di riso 2,80 euro, il girasole 1,50/1,60. Ma la qualità del prodotto, a livello di palatabilità, è diversa”. Sulla flessibilità dell’olio di palma nessuno nutre dubbi: è una materia prima “eccezionale” per l’industria, dà struttura, è inodore, insapore, ha un punto di fumo alto.

Anche alla Grondona l’olio di palma non è mai arrivato. “Facciamo ancora le ricette di mio nonno – spiega l’amministratore delegato e proprietario, Orlando Grondona -. Quindi olio e burro. L’incidenza dei costi è mostruosa: l’olio parte da 3 euro al chilo, il burro non va sotto i 4,5 euro al chilo”. Anche questa è una scelta di marketing: il biscottificio piemontese ha deciso di non fare concorrenza alle fasce mass market, “puntiamo a un cliente tra i 25-45 anni, laureato, che cerca prodotti buoni. Negli ultimi 6-7 anni siamo cresciuti del 40%”, spiega l’ad. La linea è stata applicata anche alle controllate del gruppo: Duca d’Alba e Bonifanti. Quest’ultima, sfornando colombe e panettoni, deve attenersi a capitolati che escludono il palma.

Anche la romana Gentilini non usa olio di palma nei prodotti storici. “Ce n’era una piccola percentuale in quelli nuovi – precisa la responsabile comunicazione, Francesca Germanò – ma abbiamo scelto di eliminarla già nel 2012-13, per migliorare la qualità, e già a metà del 2014 non ne avevamo più”. Oggi alla Gentilini il 90-95% del grasso è burro, il resto girasole. “Ma abbiamo impiegato due anni a rivedere le ricette – prosegue Germanò -. Non abbiamo comunicato di averlo eliminato perché ne usavamo poco, dirlo oggi sarebbe un autogol”.

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Si trova in molti prodotti confezionati, creme spalmabili e farciture ed è al centro di polemiche e dibattiti da quando è obbligatorio indicarlo in etichetta

CAMBIO DI PASSO

A strillarlo, però, sono molte aziende. Colussi, ad esempio, il marchio del Gran Turchese, da mesi ricorda in televisione che i suoi biscotti hanno rinunciato al grasso vegetale. L’ultimo marchio che ne ha fatto un argomento di pubblicità è Barilla.

Sono 70 i prodotti Mulino Bianco riformulati negli ultimi 5 anni – ha spiegato l’azienda in una nota a Wired -: alimenti con meno grassi, sale, zucchero e più fibre e farine integrali” e “in particolare da diverso tempo stiamo riducendo i grassi saturi dei nostri prodotti e quindi la sostituzione dell’olio di palma è una delle strade che percorriamo”.

In linea di massima, Barilla ha sostituito il grasso di palma con quello di girasole, ma non ha precisato che incidenza abbia avuto sui costi di produzione. Né inizialmente ha puntualizzato quale sia il protocollo utilizzato per certificare la provenienza delle materie prime, nello specifico dell’olio di palma, che è ritenuto tra le cause della deforestazione del Sudest asiatico. (AGGIORNAMENTO 22/9 h.19.00: questa precisazione è arrivata. Barilla scrive che “è membro attivo Rspo sin dal 2010 e ha scelto di collaborare solo con fornitori in grado di garantire metodi di produzione rispettosi delle linee guida definite da Rspo. Il 100% dell’olio di palma utilizzato da Barilla è olio di palma sostenibile certificato Rspo. Questa attenzione resta valida in qualsiasi paese in cui opera il Gruppo Barilla, sia all’interno degli stabilimento di proprietà, che presso gli stabilimenti che producono per conto del Gruppo. In più Barilla non acquista olio di palma da produttori che si rendano responsabili di incendi forestali o deforestazione” ndr). Barilla si è limitata a dire che nel 2015 ha “triplicato la quota di materie prime strategiche acquistate da filiere gestite responsabilmente”. “Il nostro obiettivo – ha aggiunto – è acquistare materie prime strategiche al 100% sostenibili entro il 2020” .

Tra i difensori dell’utilità e della salubrità dell’olio di palma c’è Aidepi, associazione che l’anno scorso ha avviato una campagna di informazione a favore del grasso vegetale. E alla presidenza lo scorso giugno è stato riconfermato Paolo Barilla, che è anche il numero due dell’azienda di famiglia. Ma se Aidepi difende l’olio di palma, perché Barilla lo elimina? “Per venire incontro alle richieste dei consumatori e per la nostra missione “Buono Per Te, Buono Per Il Pianeta”, che guida e ispira il nostro modo di fare impresa – la risposta  dell’azienda -. La sostituzione dell’olio di palma è coerente con un percorso di miglioramento del profilo nutrizionale dei nostri prodotti partito da tempo”.

“MOSSA DI MARKETING”

Giuseppe Allocca, presidente dell’Unione italiana per l’olio di palma sostenibile, che rappresenta Ferrero, Univeler Italia, Nestlé Italiana eUnigrà, non ha dubbi. Tra quelli che hanno tolto l’olio di palma, “sicuramente c’è chi ha rielaborato le ricette per offrire ai consumatori prodotti con un minor apporto di grassi saturi e in questo caso nulla da dire– osserva il numero uno, avvocato -. Tuttavia, permane il dubbio che, in molti casi, la riformulazione delle ricette non abbia dato vita a prodotti con apprezzabili vantaggi in termini di ingredientistica totale o di riduzione di grassi saturi rispetto al mercato, come richiede la legge, o di contaminanti”. Detto in altre parole, “è un fatto di marketing – affonda Allocca – legittimo, ma un fatto di marketing”.

L’Unione che rappresenta si è costituita proprio per dare voce a chi non rinuncia all’ingrediente e ha adottato certificazioni di sostenibilità della materia prima. “Ad oggi nessun istituto o ente o organizzazione, mondiale o nazionale, ha mai imposto di eliminare l’olio di palma o affermato che questo ingrediente sia dannoso”, prosegue Allocca.

L’associazione ha molti dati dalla sua: l’olio di palma ha una resa di 3,47 tonnellate di olio per ettaro, contro le 0,65 tonnellate della colza e le 0,32 tonnellate dell’oliva. Un albero può rendere fino a 25 anni e l’86% della produzione mondiale è concentrata tra Indonesia e Malesia, dove circa il 43% però viene sviluppata da piccoli produttori agricoli (52% nella prima e 33% nella seconda). Una ricchezza che si è rivelata anche una maledizione, con la foresta equatoriale assediata da chi vuole fare spazio a nuove piantagioni di palme, terra comprata a poco prezzo e lavoratori sfruttati. Per questo sono nate a livello internazionale associazioni che monitorano la filiera dell’olio di palma, per distinguere quelle pulite da quelle sporche.

QUESTIONE DI CERTIFICAZIONE

La prima nata è la Roundtable on sustainable palm oil (Rspo), i cui certificati sono adoperati anche dall’unione guidata da Allocca. Tuttavia perGreenpeace non è “affidabile a causa dei suoi bassi standard – spiega Martina Borghi, responsabile Foreste -. All’interno della Rspo, infatti, ci sono anche aziende che non sono in grado di garantire che nella propria filiera produttiva non si verifichino fenomeni come la deforestazione o pratiche come l’incendio delle torbiere. Greenpeace è sempre stata molto criticanei confronti degli standard di certificazione della Rspo”. “Rspo sta operando con una certificazione più precisa, Rspo Next – annuncia Allocca -. Contiamo di avere palma sostenibile al 100% entro il 2020”.

Un modello di controllo più severo esiste già ed è quella firmata dal Palm oil innovation group (Poig), di cui fa parte anche Greenpeace insieme ad altre otto associazioni ambientaliste, e che in Italia è stata adottata da Ferrero.

Il gruppo della Nutella, che il ministro francese dell’Ambiente, Ségolène Royal, aveva invitato a boicottare, ha passato l’esame del Poig. “L’azienda sta implementando step by step una politica di acquisti dell’olio di palma molto ambiziosa in termini di sostenibilità ambientale – precisa Borghi -. Per questa ragione riteniamo che Ferrero sia una delle multinazionali più all’avanguardia rispetto alla sostenibilità dell’olio di palma”.

A dicembre 2015 Ferrero ha raggiunto il 99.5% di tracciabilità alle piantagioni, grazie alla collaborazione dei suoi fornitori ed il supporto di The Forest Trust”, comunica la società. Che tra gli standard stabiliti con i propri fornitori richiede che “i caschi siano inviati appena colti e ancora freschissimi al mulino”, che “il processo di lavorazione sia effettuato alle temperature più basse possibili allungando dunque i tempi necessari, ma mantenendo meglio le caratteristiche naturali della materia prima” e impone che “dopo la deodorazione, la materia prima deve essere utilizzata al massimo entro 48 ore”.

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(Foto: Enrico Matteucci / Flickr CC)

NO AL BOICOTTAGGIO

Gli standard adottati dall’azienda piemontese hanno superato quelli di altri colossi globali, come Colgate-Palmolive, Johnson & Johnson e Pepsi, tanto da risultare i migliori secondo Greenpeace. L’associazione ambientalista non sostiene che la strategia per combattere deforestazione, land grabbing e negazione dei diritti dei lavoratori e delle comunità locali sia il boicottaggio, ma una politica per governare la produzione.

L’approccio “High Carbon Stock” (Elevato Stock di carbonio), ad esempio, permette di individuare le aree dove è consigliato realizzare piantagioni di palma da olio – prosegue Borghi -, ovvero terreni degradati, con basso valore naturalistico e di stoccaggio di carbonio”. D’altronde, l’olio di palma è un ingrediente comune nella dieta di 3,5 miliardi di persone. E se venisse eliminato cancellerebbe con un colpo di spugna il 40% del mercato mondiali dei grassi da cucina. Tuttavia all’industria alimentare è destinato il 21% dell’olio di palma importato in Italia, 386mila tonnellate nel 2015, mentre il 79% si divide tra bioenergia, zootecnia, oleochimica, cosmetica e farmaceutica.

FARSI BELLI

L’utilizzo di questi ingredienti nei prodotti cosmetici è da ritenersi sicuro in quanto sottoposto alle rigide norme delle Regolamento europeo 1223/2009 sui cosmetici – spiegano da Cosmetica italiana, l’associazione confindustriale del settore -. Altri oli vegetali come olio di cocco e olio di oliva potrebbero essere usati, ma  resterebbe in ogni caso la questione della sostenibilità delle fonti”. Ma anche nel segmento della bellezza muove i primi passi la frangia di chi rinuncia all’olio di palma. Come l’Erbolario di Lodi. Il fondatore, Franco Bergamaschi, spiega che “tra i motivi ci sono tecniche colturali e causa di deforestazione”. Il marchio lombardo adoperava il grasso vegetale in quattro solari e in una crema corpo, ma un anno e mezzo fa ha preso la decisione: stop alla fornitura di palma. Introducendo al suo posto olio di cocco e olio d’oliva.

Fonte: Wired.it

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